Analisi critica dei modelli animali in psichiatria

dott. Stefano Cagno, medico specializzato in psichiatria



Il Professor Pietro Croce, noto medico antivivisezionista, ha sempre affermato che la vivisezione poggia su un errore metodologico, ossia considerare i risultati ottenuti su una specie animale validi per un'altra specie, compresa quella umana. Tutto ciò succede perché ogni specie animale possiede una propria anatomia, fisiologia, biochimica, genetica e quindi quanto si verifica, ad esempio in un cane, non è detto che si ripeta in maniera uguale o soltanto simile negli esseri umani.

Personalmente ritengo che in Psichiatria l'errore sia doppio, poiché con gli animali non condividiamo il linguaggio, ossia lo strumento della comunicazione, indispensabile per comprendere le dinamiche psichiche e quindi per porre una diagnosi.

Per ovviare a questo grave limite i vivisettori confondono i concetti di sintomo e di sindrome: quest'ultima è, infatti, la combinazione di diversi sintomi. Ad esempio: ogni persona vive momenti in cui si sente triste (sintomo depressione), ma soltanto quando oltre alla tristezza subentrano perdita degli interessi, rallentamento psicomotorio, affaticabilità, sensi di colpa ed incapacità, diminuzione della capacità di concentrarsi, pensieri di morte, eccetera, possiamo affermare che il paziente è affetto da una Sindrome Depressiva.

I ricercatori, quindi, creano grossolani modelli animali dei sintomi umani non essendo, ovviamente, in grado di crearli per le più complesse ed uniche sindromi psichiche umane. Come risultato qualcuno è giunto persino a considerare uno stesso modello valido per patologie differenti. Ad esempio, Martin Selingman osservò che sottoponendo a scariche elettriche ripetute alcuni cani che non erano in grado di evitarle, questi ad un certo punto: "Rinunciavano ad ogni tentativo di evitare lo shock elettrico e diventavano apatici ed impotenti" (1). Selingman ritenne il suo modello valido per le ricerche sulla Depressione. Invece altri autori, quali Liddell e Masserman, pensavano che un animale sottoposto a ripetuti stimoli nocivi, quali lo shock elettrico di Selingman, potesse diventare nevrotico e pertanto rappresentare un valido modello sperimentale per i Disturbi d'Ansia (2).

I modelli sperimentali per i disturbi psichici umani sono moltissimi, ma la strategia è identica. I vivisettori inducono negli animali modificazioni comportamentali agendo sull'ambiente, oppure somministrando loro sostanze chimiche. Così gli animali sono stati posti in gabbie con il pavimento elettrificato oppure riscaldato, sono stati affamati o assetati, sono stati resi ciechi cucendo le palpebre oppure togliendo loro i bulbi oculari, sono stati tagliati i baffi ai gatti, i piccoli sono stati tolti alle madri e posti in luoghi bui e isolati da qualsiasi stimolo sonoro, altri animali sono stati costretti a nuotare fino allo sfinimento.

Per comprendere meglio l'artificiosità e l'irrazionalità dei modelli animali in campo psichiatrico possiamo analizzare, ad esempio, le ricerche riguardanti la schizofrenia. Per porre diagnosi bisogna che siano soddisfatti alcuni criteri elencati nei manuali diagnostici. Tra questi il più utilizzato è il DSM-IV (3) secondo cui in uno schizofrenico devono essere presenti almeno due dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico, sintomi negativi, vale a dire appiattimento dell'affettività, alogia, abulia.

Contemporaneamente deve verificarsi uno scadimento delle funzioni sociali/lavorative. Ad eccezione dell'abulia e in parte dell'appiattimento affettivo, nessuno di questi sintomi può essere indagato attraverso gli animali. Il delirio è una falsa credenza basata su una deduzione non corretta concernente la realtà esterna, sostenuta nonostante prove e l'opinione unanime contrarie. E' quindi evidente come un delirio possa essere comunicato solo attraverso le parole, pertanto non è mai possibile affermare che un animale delira.

Ragionamento analogo vale per le allucinazioni, che sono percezioni sensoriali in assenza di stimolazione esterna dell'organo sensoriale in questione. Qualsiasi tipo d'allucinazione, visiva, uditiva, olfattiva, può essere comunicata solo attraverso il linguaggio. Anche gli animali potrebbero percepire allucinazioni, ma noi non potremmo mai essere sicuri che ciò accada.

Riguardo al comportamento disorganizzato, ritengo sia valutabile solo nelle specie più evolute come cani, gatti e primati non umani. Questo sintomo però è comune a molte altre patologie, non solo psichiatriche, come ad esempio nelle demenze. Inoltre nei modelli animali è indotto dalla somministrazione di sostanze, oppure da danni al cervello provocati dagli sperimentatori e queste due condizioni, per i manuali diagnostici, escludono proprio la possibilità di porre diagnosi di schizofrenia.

L'appiattimento dell'affettività non è valutabile per quanto riguarda la componente idetica, ma solo per quella comportamentale e può essere associato all'apatia. Questi due sintomi però sono comuni anche nei disturbi affettivi e in particolare nella depressione. Così la somministrazione di sostanze differenti, come la reserpina, provocano gli stessi sintomi, ma non sono considerate utili per le ricerche sulla schizofrenia.

Infine, mi sembra evidente che anche lo scadimento delle funzioni sociali e lavorative non possa essere valutato negli animali. La complessità del comportamento umano e delle relazioni interpersonali non è assolutamente paragonabile a quello degli animali, tanto meno dei roditori.

Anche in questo caso l'assunzione di moltissime sostanze è in grado di interferire con i comportamenti degli esseri viventi (umani o animali). Non per questo motivo sono in grado di provocare la schizofrenia: nessun essere umano è, infatti, diventato schizofrenico solo perché ha assunto anfetamine, mentre i topi che si trovano in una condizione analoga, sono considerati, dai vivisettori, validi modelli sperimentali per le ricerche sulla schizofrenia.

E' curioso costatare come i modelli animali per le ricerche sulla schizofrenia, come già ricordato, utilizzino sostanze chimiche come le anfetamine o distruzioni di parte del sistema nervoso centrale come l'ippocampo (4). I manuali diagnostici stabiliscono invece che per porre diagnosi di schizofrenia bisogna verificare che il paziente non abbia assunto sostanze in grado di modificare la percezione e/o il comportamento e inoltre che non esistano condizioni mediche (ad esempio traumi cranici) in grado di giustificare la sintomatologia. La validità, quindi, dei modelli animali per quanto riguarda la schizofrenia è smentita dagli stessi manuali diagnostici.

Un altro esempio significativo può essere quello dei modelli comportamentali della depressione. In questo caso agli animali non è somministrata alcuna sostanza, ma sono posti in condizioni sperimentali particolari, fisicamente o psicologicamente traumatiche, tali da provocare modificazioni che i ricercatori interpretano come segni di depressione. All'inizio degli anni '60, presso l'Università del Wisconsin, Hanry Harlow scoprì che i piccoli di scimmia rhesus separati dalle loro madri mostravano una risposta di disperazione ritenuta analoga ad alcune forme di depressione umana (5). Alcuni anni dopo, Selingman e Maier hanno osservato che cani e ratti cui erano state somministrate scariche elettriche senza possibilità di fuga, non riuscivano ad apprendere adeguate risposte alla fuga in una situazione in cui questa era possibile (6).

Da allora in poi Harlow, Seligman e molti altri ricercatori hanno compiuto esperimenti sempre più complessi e crudeli, aumentando così l'artificiosità della situazione, ma non l'utilità nella comprensione della malattia. Tra i tanti possiamo ricordare quelli in cui Harlow separava scimmie rhesus dalla madre durante le prime settimane di vita. Poiché, in questo periodo la scimmia dipende dalla madre per cibo e protezione ed anche per il calore fisico e la sicurezza emotiva, Harlow sostituì la madre con un surrogato di filo di ferro o di stoffa. Il piccolo dimostrò di preferire il surrogato rivestito di stoffa, che gli dava il conforto da contatto, rispetto al surrogato di filo metallico, che dava cibo ma non conforto. (7).

Che cosa ha scoperto con questi esperimenti Harlow? Niente di più di quanto chiunque si occupa di violenze sui minori conosce da sempre. I bambini e ancora di più i neonati, anche se maltrattati e respinti dai genitori, cercano comunque un contatto affettivo e anche fisico con questi ultimi. Harlow non ha fatto altro che confermare quanto già ampiamente dimostrato e conosciuto negli esseri umani. Nonostante ciò una ricerca del dottor Martin Stephens ha rilevato che tra gli anni 1961 e 1984 sono state pubblicati ben 368 lavori riguardanti la deprivazione materna (8).

A prescindere dalla crudeltà, se non dal vero e proprio sadismo, di questi esperimenti, è anche importante sottolineare dal punto di vista scientifico, che i sintomi prodotti non sono assolutamente corrispondenti a quelli umani. Il comportamento depressivo è prodotto in una percentuale molto maggiore negli animali rispetto a quella presente nella popolazione generale e questo risulta facilmente intuibile, poiché la quantità di stress cui sono sottoposti gli animali è notevole. Inoltre, non sempre negli esseri umani è presente un evento stressante e comunque non così forte come negli animali. Anzi, se seguiamo sempre i criteri diagnostici dei manuali, ci accorgiamo che questi modelli sperimentali non sono assolutamente riferibili alla depressione. Questa patologia, infatti, si manifesta molto spesso senza una causa scatenante. Quando invece questa è presente, soprattutto se molto traumatica, dobbiamo porre altre diagnosi, come quelle di Disturbo dell'Adattamento con Umore Depresso oppure Disturbo Post-Traumatico da Stress o Disturbo Acuto da Stress.

Infine questi sintomi indotti artificialmente negli animali regrediscono rapidamente se reintrodotti in un ambiente normale. Questo non avviene negli esseri umani, non solo nei casi di Sindrome Depressiva, ma anche in tutti quei casi in cui è presente una reazione depressiva ad un evento drammatico o traumatico.

Ragionamenti analoghi possono essere posti per qualsiasi altra patologia, come i Disturbi d'Ansia o i Disturbi Alimentari.

Concludendo, credo che l'arretratezza in cui si trova la psichiatria dipenda anche da un errato modo di impostare la ricerca, per cui, alla comprensione delle dinamiche psichiche umane, si preferiscono gli inutili modelli animali, dai quali è impossibile trarre alcun dato trasferibile alla nostra specie.

Riferimenti bibliografici

1.Manuale di Psichiatria: H.I. Sadock, pag. 136-137 Vi ed. EdiSES 1993
2.Le nevrosi apprese: a cura di Ezio Sanavio, pag.41 Franco Angeli Editore 1981
3.American Psychiatric Association. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali IVa edizione - Masson 1995
4.Schmajuk N.A., Schizophrenia Bulletin, vol. 13, pp. 317-327, 1987
5.Harlow H.F. e Harlow M.K. Social deprivation in monkeys, Sci. Am. 207, pp. 136-146, 1962
6.Seligman M.E.P. e altri, Failure to escape traumatic shock. J Exper Psychol, 74, pp. 1-9, 1967
7.Manuale di Psichiatria: H.I. Kaplan e B.J. Sadock, pag 138, VI ed. EdiSES. 1993
8.M.L. Stevens. Maternal Deprivation Experiments in Psychology. American Antivivisection Society, National Antivivisection Society Chicago e New England Antivivisection Society, 1986

Questo articolo è in parte tratto dal libro, dello stesso autore: "Sperimentazione animale e psiche: un'analisi critica", Stefano Cagno; Ed. Cosmopolis, 2001

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